Testo di Giacomo Zaza
Il progetto espositivo Cuba introspettiva. Esperienze performative di videoarte nella sede dell’Ex Ospedale di San Rocco, Museo nazionale di Matera, pone in evidenza una scena artistica cubana, dentro e fuori dell’isola, dedita all’utilizzo del film, del video o dell’immagine in movimento, in bilico tra contestazione, analisi socio-antropologica e storia umana. Una scena segnata da dodici artisti attivi dagli anni Ottanta e Novanta (Juan Carlos Alom, María Magdalena Campos-Pons, Luis Gómez Armenteros, Tony Labat, Sandra Ramos, Lázaro Saavedra) all’ultimo trentennio (Analía Amaya, Javier Castro, Susana Pilar Delahante Matienzo, Ernesto Leal, Glenda León, Grethell Rasúa).
Attraverso l’immagine video gli artisti cubani affermano uno sguardo introspettivo denso di sensazioni, deviazioni e trasfigurazioni, in un continuo rapporto dialettico con le limitazioni e gli stereotipi. Uno sguardo empatico e riflessivo che incontra i contesti urbani (le strade dell’Avana), i comportamenti e le abitudini della comunità, e ingloba, attraverso le potenzialità sinestetiche del video, le melodie e le sonorità tipiche (tanto i ritmi afrocubani quanto il reggaeton). A questo sguardo non mancano dei tratti ironici e sarcastici, a volte inquieti, oppure scabri e senza enfasi, come avviene in certa letteratura cubana – dalla scrittura diretta e antidogmatica di Virgilio Piñera o di Edmundo Desnoes, al linguaggio graffiante e aspro di Pedro Juan Gutiérrez in cui si sedimentano le tracce dell’universo marginale.
Le dodici esperienze a Matera offrono un caleidoscopio narrativo d’impegno etico, scevro da qualsiasi impalcatura epica, accompagnato dall’interiorizzazione della storia (con le sue derive) e di quei desideri che legano il singolo al gruppo. Una sorta di mosaico di brani imbevuto di un “temperamento” sincretistico che intreccia spazio pubblico e spazio privato (spesso negato dai precetti del Comunismo), vicende socio-culturali e inattesi percorsi fantasiosi. Le argomentazioni non sono al servizio dell’idealismo “rivoluzionario” o dell’identità di massa, ma perseguono innumerevoli scelte esistenziali e identitarie, mantenendo viva una relazione aperta alla diversità – inclusa l’identità nera e mestiza. E i dispositivi narrativi appaiono molteplici: voci fuori campo, interviste, filmati d’archivio, riprese amatoriali, animazioni, azioni corporali svolte davanti alla videocamera.
Inoltre emerge un’incredibile spinta performativa che si muove in maniera non omogenea su diversi livelli tematici, tra i valori fondativi dell’esperienza (la solidarietà, la libertà dell’individuo) e la ricerca di una dimensione poetica, sensibile, che corteggia il “mondo magico”.
Considerato nel suo insieme, il progetto di videoarte al Museo nazionale di Matera esprime pienamente l’idiosincrasia dell’arte cubana nei confronti dei protocolli del potere e di qualsiasi programma ideologico. In virtù della sua attitudine introspettiva e riflessiva, l’arte cubana è senza dubbio lo spazio di una coscienza critica.
Va precisato che, a partire dalla Rivoluzione del 1959, Cuba è stata e continua a essere un crocevia culturale influente per l’arte dell’America del Sud e del Terzo Mondo: uno scenario internazionale dove hanno importanza numerose istituzioni come Casa de las Américas e l’ICAIC (Instituto Cubano del Arte e Industria Cinematográficos), oppure l’ISA (Istituto Superior de Arte) con tre scuole distinte – musica, arti visive e arti dello spettacolo – e in particolar modo il motore propulsivo del Centro Wilfredo Lam e della Bienal de La Habana (avviata nel 1984).
Questa solida piattaforma promozionale è stata il risultato dei programmi di politica culturale lanciati dal governo cubano soprattutto dopo la modifica della costituzione nel 1976, e, allo stesso tempo, alimentati dalla frequentazione dei cubani che vivevano negli Stati Uniti. Seppur il governo abbia sempre legittimato il controllo della produzione culturale, vi sono stati maggiori spiragli quando la bilancia del potere si è spostata a favore del socialismo marxista d’ispirazione nazionale (latinoamericana), e meno verso il socialismo “marxista-leninista” di origine sovietica. Ovviamente la collettività artistica a Cuba ha cavalcato, dagli anni Sessanta in poi, cruciali cambiamenti, tra i quali: la rottura delle gerarchie sociali, l’egualitarismo, la concessione di terre e abitazioni ad ampi segmenti della popolazione, l’universalizzazione dell’educazione, la parità dei redditi, l’abolizione della proprietà privata e la sua conversione in proprietà personale.
Inoltre bisogna considerare che gli intellettuali cubani (da Jorge Mañach a Virgilio Piñera), stanchi del lobbismo, si son trovati di fronte a una Rivoluzione che non li obbligava a delle posizioni ideologiche. L’ideologia di maggior peso simbolico era il nazionalismo, nella sua variante riformista – sebbene il liberalismo e il socialismo abbiano giocato un ruolo importante. Difatti il ”nazionalismo di sinistra” (Che Guevara) ha fatto sentire la maggioranza della popolazione inclusa nel processo rivoluzionario di carattere socialista. Le iniziative del governo cubano per la cultura davano l’illusione che tutto fosse possibile a Cuba, tranne però l’opposizione alla Rivoluzione. Memorabili le parole di Fidel Castro tratte dal discorso Palabras a los intelectuales tenuto durante i tre giorni d’incontri con molti intellettuali nella Biblioteca Nazionale all’Avana nel 1961 a seguito delle discussioni suscitate dalla censura del documentario PM. Castro aveva dichiarato “[…] dentro de la Revolución, todo; contra la Revolución, nada […]” per definire le linee guida non sulla libertà formale dell’artista, ma sulla libertà di contenuto nell’interesse della Rivoluzione. Però queste linee guida introdussero uno schema capriccioso che ha classificato artisti come dissidenti o meno.
Nel 1971 durante il “Primer Congreso de Educación y Cultura” il governo ha anche affermato: “el arte es un arma de la revolución” – arte come strumento di divulgazione delle idee rivoluzionarie socialiste. E questa intenzione ha incontrato immediatamente il rifiuto degli artisti, riluttanti alle limitazioni.
Non mi soffermo qui nell’analisi dei dibattiti a Cuba – in particolare durante il cosiddetto Quinquenio Gris (1971-76). Una cosa è certa: l’arte cubana ha condotto una sperimentazione libera da condizionamenti e, nel caso della videoarte, ha generato immagini viscerali e cerebrali sempre in divenire, passando dai profili illustrativi e declamatori a una mescolanza di codici visivi alti e bassi.
L’esperienza artistica formatasi a Cuba diffida delle strategie politiche che si aggrappano ai simboli della nazione in maniera retorica per fronteggiare un repertorio culturale “condiviso”, mutevole e in continuo fermento, reso esplicito dalla danza, dai suoni, dalle voci e dal linguaggio comune quali imprescindibili esperienze da esplorare. Difatti gli artisti entrano in relazione con i quartieri e gli angoli dimenticati, dando spazio alle pulsioni più recondite e incarnando l’energia del politeismo della Santería (detta Regla de Ocha, o Lucumí). Non solo, interpretando la precarietà, la vitalità sociale e le forme di sopravvivenza.
Un esempio di ridescrizione filmica dei contesti antropici ci viene dato dal film bianco e nero Habana Solo di Juan Carlos Alom in cui la musica e i musicisti si compenetrano alla città dell’Avana (al suo paesaggio e ai suoi soggetti). Alom ha chiesto a vari amici musicisti, delle più svariate tendenze musicali (Frank Emilio, Tata Güines, Enrique Lázaga e José Luis Cortés, tra gli altri), di suonare un assolo con il loro strumento della durata massima di due minuti.
Habana Solo è un documentario fantasioso rigorosamente girato con una cinepresa da 16 mm che descrive visivamente, nel senso di ridipingere, i quartieri in decadenza e le persone nei loro gesti casuali, espressi liberamente per le strade dell’Avana. Alle riprese urbane si associano quelle filmiche dei musicisti impegnati nelle loro improvvisazioni. Alom ha reso palpabile lo spirito della città posseduto tanto dagli assolo quanto dai suoni e dai rumori che abitualmente essa produce, evidenziando i movimenti, la gamma e la fluidità dei corpi.
Invece l’artista Javier Castro attraverso la videocamera sviluppa uno sguardo di tipo antropologico che “scava” nella società mostrandone tutte le sfaccettature, anche le più scomode. La sua narrazione è priva di virtuosismi scenici, svincolata da qualsivoglia apologia. E, servendosi dell’intervista mette in relazione diretta la telecamera con il corpo sociale. Così avviene per il video El beso de la patria girato di fronte alla casa natale di José Martí – politico, scrittore ed eroe nazionale (sostenitore della sovranità cubana).
Vivendo nei pressi della casa di Martí Javier Castro è riuscito ad avvicinarsi a questa figura storica in maniera diversa da come è solitamente (e ufficialmente) mostrata a Cuba. Nel corso degli anni, l’eroe nazionale è stato assunto dai vicini quale “uno del quartiere”. L’aura eroica in cui la storia inscrive i suoi personaggi è umanizzata e decostruita. Partendo da questo processo di solidarietà civica fuori da ogni pretesa epica, il video di Javier Castro accoglie tutti gli scorci, le voci, i pareri e gli sguardi del popolo intorno alla casa dell’eroe nazionale, configurando l’immaginario collettivo che aleggia nel barrio.
Altri artisti, come Ernesto Leal, si appropriano dell’immaginario politico (di carattere celebrativo) per decostruirlo e “delegittimarlo”, e, non potendo praticare un’opposizione esplicita, esposta a censura, accentuano la metafora riflessiva e comunicativa mediante la ripresa video.
Per Diglosia Ernesto Leal cattura con la videocamera alcune parole che fanno parte di scritte propagandistiche dipinte su muri e pannelli, o d’insegne lungo le strade, e, accostandone le riprese, compone un discorso disincantato e tagliente. La diglossia in linguistica indica la presenza nella stessa comunità di due lingue o varietà linguistiche (una “bassa” e l’altra “alta”, come nel caso della lingua nazionale e dei dialetti). Sfruttando questo parallelismo, Ernesto Leal affronta il problema di una società, quella cubana, che vive con un duplice discorso: quello dello Stato e quello degli individui, facendo luce sul paradosso morale che è al centro dell’illusione comunista – l’idea che si possa “costruire un popolo senza persone” ossia parlare alle masse senza tener conto delle loro individualità, della loro partecipazione politica attiva e della loro coesione come entità pensanti. Nel video una lunga articolazione di parole – quali “difficile trattare con fanatici del potere”, “senza libertà di coscienza non c’è cultura possibile” – controbatte alla retorica dell’establishment politico cubano.
A partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica (1989-1991) Cuba ha affrontato ininterrottamente complicati periodi di crisi e non facili momenti di transizione economica – dal drammatico “El Período Especial” al lento momento di ripresa con la presidenza di Raúl Castro nel 2008. Restano “indelebili” per il paese tanto le luci e le ombre delle peripezie politiche, quanto i tremori dell’universo umano affetto da condizioni d’incertezza e di vulnerabilità. I video nella mostra Cuba introspettiva commentano la trasformazione del vissuto mediante le energie corporali e le abilità inventive del soggetto (prima ancora che della collettività). Per la videoinstallazione Life from the Spinning Washing Machine di Luis Gómez Armenteros scorrono su tre proiezioni asincroniche gli autoscatti del volto dell’artista sovrapposti a immagini d’interni e luoghi esterni (una strada con le palme, i tetti delle case e la bassa scogliera di Cojímar, un circo in lontananza), o a riprese found footage e pattern occasionalmente modificati da filtri colorati. Si vede il volto di Gómez a volte serioso, altre volte sorridente, con smorfie appena accennate, coperto da un teschio, oppure dall’immagine di un alluce con una verruca e, per pochi istanti, da una ellisse che gira su se stessa. Le proprie tracce identitarie congiunte al vissuto personale, corrono veloci, diventando i segnali di una vita tragicomica che fluttua costantemente.
Anche María Magdalena Campos-Pons lascia che il suo ritratto veicoli in modo fluido la propria appartenenza: il mondo creolo e le sfere identitarie afro-cubane. Nel video Just Another Day la vediamo con il volto truccato di bianco, quasi impolverato, intenta a estrarre lentamente dalla bocca un filato di tessuto blu indaco (in allusione al colore di Yemayà, dea del mare, madre delle creature viventi e degli Orisha secondo la mitologia Yoruba). In più l’espulsione della corda ci riporta alla mente l’eredità della tratta transatlantica degli schiavi impegnati nella coltivazione della pianta da cui si estrae l’indaco. Mentre il viso dipinto richiama sia il retaggio culturale dei rituali, sia l’elevazione simbolica dalla questione del lavoro schiavista nei Caraibi.
Si può affermare che la videoarte a Cuba è sia documentaristica ed evocativa che immaginifica e visionaria. Giunto tardi nell’isola rispetto all’Occidente, all’America del Nord e all’Asia, il medium video ha assunto particolare importanza negli anni Novanta e Duemila, in quanto ha permesso agli artisti di esprimere una libertà di pensiero e prendere in esame le differenze di classe, le diversità e le potenzialità femminili – solo per citare alcune questioni.
Parallelamente alle esperienze cinematografiche cubane dagli anni Sessanta in avanti, che scrutano i conflitti individuali e sociali – come quelle di Sabá Cabrera Infante, Julio García Espinosa, Orlando Jiménez Leal, Santiago Alvarez, Tomás Gutiérrez Alea, Humberto Solás, Manuel Octavio Gómez e Sara Gómez – la videoarte a Cuba rappresenta un importante campo di sperimentazione metalinguistica, processuale e concettuale. Se il cinema cubano ha praticato, nel grembo dell’ICAIC – ovvero nelle maglie non facili dell’istituzione – un’osservazione innovativa e disinibita degli eventi, spesso attenta alle storie marginali scartate dalla narrativa “rivoluzionaria” accreditata, il video d’artista ha intensificato la portata anticonformista dell’audiovisivo e il suo carattere destabilizzante.
Gli artisti cubani nati negli anni Ottanta e cresciuti in una Cuba che ha visto il tramonto del socialismo reale e il susseguirsi di crisi economiche, non provano quel sentimento di rinnovamento che aveva guidato i registi Sara Gómez e Julio García Espinosa nell’epoca della ricostruzione sociale (in termini di lavoro, istruzione e alloggi per la popolazione) durante gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E a differenza del cinema, utilizzano la tecnologia digitale, ormai diffusa a Cuba dagli anni Duemila, per “raggirare” i paradigmi estetici ufficiali dettati dagli apparati culturali del governo, sempre più dogmatici. La loro sperimentazione trasporta un’identità sfaccettata: un mélange culturale scevro da qualsiasi nozione puritana di identità. Antesignani di tale perdita di centralità e del sincretismo narrativo della videoarte sono i video realizzati da Tony Labat in California negli anni Ottanta dove si uniscono sottocodici culturali, registri comportamentali, lingue, circostanze e tipologie di figure diverse.
A tutti gli effetti, il digitale è congeniale alla rielaborazione di fonti, all’ibridazione tra generi, forme, linguaggi differenti. Prende vigore a Cuba una cultura del remix, ribadita dall’uso creativo del found footage – girati di repertorio o film d’archivio (alcuni persino censurati), e filmati amatoriali. Per esempio Lázaro Saavedra ripresenta e reinterpreta musicalmente vecchie pellicole destinate all’invisibilità e consente una rilettura e una nuova “investitura” semantico/visuale. Per Reencarnación Saavedra utilizza un frammento del film PM (1961) di Orlando Jiménez Leal y Sabá Cabrera Infante, che era stato immediatamente censurato in quanto, nel raccontare la vita notturna dell’Avana nei bar del porto durante i giorni della lotta contro l’invasione della Baia dei Porci (Playa Girón), distorceva la realtà trasmettendo un’immagine dissoluta. Inoltre la censura del film aveva motivato il memorabile incontro nella Biblioteca Nazionale tra Fidel Castro e gli intellettuali cubani. Saavedra sceglie delle sequenze che mostrano persone mentre ballano sotto gli effetti dell’alcol in un night club. I passi e i movimenti nel video sono guidati dai ritmi di una canzone reggaeton del cantautore cubano Elvis Manuel. Saavedra rende trasparente un tema nascosto fino a tempi recenti: il mancato riconoscimento delle manifestazioni culturali subalterne, fondanti della cultura cubana, considerate legittime solo ai margini delle istituzioni.
Pertanto, si può evincere dalla mostra a Matera che la pratica video sperimentata dagli artisti a Cuba rappresenta un luogo di mutazioni e “mutuazioni”, dove è in atto una mescolanza di attitudini documentaristiche e vocazioni performative, di realismo e astrazione. È un interessante snodo d’introspezioni, archivi personali, spazi di rivolta, slanci immaginari, utile a discutere il mondo con coscienza critica.