Testo di Luana Leo

Nel panorama delle residenze artistiche contemporanee, RADICI/RRËNJËT emerge come un’esperienza unica e rigorosamente radicata nel territorio, un progetto che non si limita a offrire agli artisti un semplice spazio di produzione, ma li coinvolge in un’esperienza profonda e immersiva, nella quale il dialogo con il contesto storico, culturale e sociale diventa il cuore pulsante di una ricerca creativa incessante.
Il progetto nasce e si sviluppa a Pallagorio, un piccolo borgo arbëresh situato nella provincia di Crotone, luogo dove sono nata, cresciuta e dove torno ogni volta che ne ho la possibilità. Esso costituisce il nucleo centrale della ricerca intrapresa per la mia tesi di laurea magistrale in Didattica per il Museo, presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. La residenza, di cui sono fondatrice e curatrice, si erge quale emblema di una rinnovata riflessione sull’arte, capace di abbracciare e reinterpretare la complessità di un passato secolare, in continua tensione con il presente e le sfide del futuro.
Il titolo stesso, “RADICI”, tradotto in lingua arbëreshe1 “RRËNJËT”, si configura come simbolo di una connessione profonda e multiforme con la tradizione, ma anche come la metafora di una continua tensione verso l’innovazione. Le radici non sono concepite come elementi statici e anacronistici, ma come un ancoraggio dinamico che, seppur radicato nel passato, possiede la capacità di nutrire e generare nuovi sviluppi. Questa visione traspare immediatamente dalla struttura del progetto, che intende non solo preservare e valorizzare l’eredità culturale del luogo, ma anche attivarla in un dialogo che abbraccia il contemporaneo, con l’obiettivo di sollecitare una riflessione collettiva sulla sua evoluzione e sul suo significato nel contesto attuale.

In un contesto storico complesso come quello calabrese, segnato da secoli di dominazioni, mescolanze e lotte identitarie, RADICI/RRËNJËT non solo si fa luogo di riflessione individuale per gli artisti, ma si trasforma in una vera e propria piattaforma di ricerca collettiva, in cui l’arte si fa veicolo di comunicazione tra passato e presente, e soprattutto di reinvenzione della tradizione.
Pallagorio, con la sua storia di emigrazione e di resistenza culturale, diventa dunque un laboratorio di sperimentazione, dove l’arte contemporanea si fa strumento di indagine delle fragilità, delle tensioni e delle potenzialità insite nelle tradizioni. Il progetto non si limita a un’esplorazione estetica della memoria, ma si configura come una piattaforma di interazione con la comunità locale, un terreno fertile per il confronto e la co-creazione. L’artista, in questa concezione, non è un soggetto isolato, ma un mediatore tra il passato e il presente, tra la tradizione e il futuro, il cui lavoro si arricchisce della partecipazione attiva della comunità, che non è mai semplice spettatrice, ma protagonista di un processo culturale condiviso.
La residenza RADICI/RRËNJËT si configura, dunque, come un’esperienza articolata, in cui l’artista è invitato a interagire con il territorio e la comunità in modo profondo e consapevole. Non solo uno spazio di produzione, ma una vera e propria piattaforma di ricerca, in cui le radici culturali e storiche di un luogo diventano il punto di partenza per una riflessione creativa che guarda al futuro. In questo contesto, Radici rappresenta un esempio di come le residenze artistiche possano essere non solo luoghi di creazione, ma anche di innovazione culturale, dove l’arte si fa veicolo di trasformazione e di dialogo tra passato, presente e futuro.
Il progetto assume una dimensione particolarmente potente quando si inserisce nella riflessione più ampia sulla questione del futuro di queste comunità, minacciate dal fenomeno dello spopolamento e dalla conseguente perdita di un patrimonio culturale antico quasi seicento anni che, se non adeguatamente tutelato, rischia di svanire nell’oblio. L’arte, infatti, non è solo uno strumento per raccontare il passato, ma una potente chiave per proiettare visioni alternative che stimolino il pensiero critico sul futuro.

Nel corso della residenza estiva del 2024, il duo artistico UCCI UCCI ha realizzato un intervento che si inserisce perfettamente in questo spirito, mettendo in dialogo l’arte contemporanea con le tradizioni più radicate della cultura arbëreshe. Attraverso una videoinstallazione e una performance partecipata, gli artisti hanno esplorato le radici storiche di Pallagorio, invitando la comunità locale a una riflessione condivisa sul rischio di disgregazione e sull’importanza di nutrire la memoria storica per evitare l’estinzione della propria identità culturale. L’opera non è soltanto una riflessione estetica, ma un vero e proprio atto di riattivazione culturale, che propone un incontro tra il linguaggio visivo contemporaneo e il patrimonio tradizionale di una comunità.
Come anticipato, i primi artisti ospiti della residenza RADICI/RRËNJËT sono stati il duo UCCI UCCI, formato da Salvatore Crucitti e Gloria Zeppilli. La loro ricerca artistica si intreccia con studi antropologici, etnografici e d’archivio, e si sviluppa in un dialogo continuo tra arte e scienza sociale.
Il duo è nato nel 2020 con l’intento di esplorare l’arte attraverso un approccio etnografico, utilizzando le analisi sociologiche e la ricerca estetica come strumenti fondamentali per costruire un linguaggio artistico. Le opere prendono vita dall’immersione in uno specifico territorio, dove il contesto viene indagato nella sua dimensione antropologica e ambientale. Ogni opera, quindi, non si presenta come un’entità isolata, ma come un elemento strettamente legato al territorio e alle sue dinamiche.
La ricerca del duo si concretizza in opere performative e visive, in cui si intrecciano lingue, racconti, tradizioni, riti e paesaggi delle comunità. Le loro opere si configurano come “oggetti ipertestuali”, dove ogni elemento rimanda a molteplici significati e connessioni.
Attraverso una pratica relazionale e l’attivazione di paesaggi antropici, l’estetica e la ricerca etnografica entrano in dialogo, con lo scopo di evocare inaspettati cortocircuiti teorici ed estetici che emergono dalla pratica artistica, permettendo una dimensione dove la riflessione è tanto poetica quanto politica, e affrontando questioni culturali e sociali attraverso una pratica artistica interdisciplinare e relazionale, con l’intenzione di evocare territori, subculture e culture nascoste o prossime all’estinzione.
L’opera “Duhen drut të bëhet zjarri – Serve legna per fare un fuoco”, esito finale della residenza, assume una valenza simbolica potente, evocando l’immagine di un fuoco che, come l’identità culturale arbëreshe, necessita di legna per poter ardere, metafora eloquente della cultura che ha bisogno di “nutrirsi” per continuare a rimanere viva nel tempo.
L’opera è composta da un’installazione video intitolata “Ujët, dheu, zjarri – L’acqua, la terra, il fuoco” e da una performance dal nome “Era – Il vento”. L’opera video-installativa si sviluppa attraverso tre video che riflettono sui temi dello spopolamento, della siccità culturale e della possibile perdita del patrimonio culturale, sia materiale che immateriale, di questa antica comunità. Ogni video esplora un paesaggio simbolico – il fuoco, la terra e l’acqua – come metafore naturali che incarnano le sfide contemporanee della comunità. Il fuoco, ad esempio, rappresenta la forza vitale della tradizione, ma anche il pericolo di estinzione; la terra è simbolo di radicamento e di una cultura che cresce e si nutre dal passato; mentre l’acqua, che scorre e modifica continuamente il paesaggio, diventa simbolo di una tradizione che si adatta e si rinnova.
Nei video, elementi rituali tipici della cultura arbëreshe – tra cui la “Vallja”, il ballo tradizionale arbëresh, il canto e il suono delle campane, sono però presentate in uno stato di progressiva disintegrazione.
Il ballo della “Vallja”, una danza collettiva simbolo di unità, si dissolve gradualmente, trasformandosi in un ballo solitario, emblematico di una comunità che, nonostante le resistenze, si sta sfaldando.
Analogamente, l’antico canto funebre “Asteriòni”, che una volta era corale, si riduce a una sola voce, quella di Francesco Mazza.
Infine, Pietro, il suonatore di campane, continua a suonarle ogni giorno, erede di una tradizione che resiste al tempo, assumendo il ruolo di testimonianza vivente di una memoria che si sforza di rimanere viva.
L’effetto risultante è una riflessione visiva e poetica sul rischio di scomparsa del patrimonio materiale e immateriale, un richiamo all’importanza di preservare una cultura che, sebbene secolare, affronta oggi il pericolo di dissolversi nell’oblio.
Durante la performance “Era – Il vento” si sono svolte due azioni performative che mettono in scena un ponte emotivo e culturale tra la comunità di Pallagorio e le sue radici, nonché tra coloro che sono rimasti e quelli che, per vari motivi, hanno dovuto allontanarsi.
La performance, che ha avuto una dimensione profondamente partecipativa, ha rafforzato il legame tra le generazioni, creando uno spazio di memoria collettiva. La lettura delle lettere, scritte in forma anonima da chi vive lontano e da chi è rimasto, ha dato vita a un intreccio di storie che colmano la distanza fisica e affettiva tra i membri della comunità.
Un altro elemento centrale della performance è stato l’utilizzo di un antico lenzuolo realizzato a telaio e appartenente al nostro corredo di famiglia, steso a terra, sul quale sono stati tracciati da ognuno dei segni che rendono visibile il tempo vissuto lontano da Pallagorio, raccontando la storia di chi è stato lontano. Il lenzuolo, segnato dal legno carbonizzato degli incendi che ogni anno devastano la regione, ha assunto il ruolo di un archivio visibile, una testimonianza tangibile della memoria storica e della resilienza della comunità.

Le opere realizzate dal duo UCCI UCCI non si limitano ad essere espressioni artistiche isolate, ma agiscono come attivatori di una riflessione collettiva, come veicoli di una riscoperta culturale che mette in crisi le certezze e invita alla ricerca di nuove modalità di relazione con il passato. La loro pratica diventa così un gesto politico e sociale, un invito alla comunità di Pallagorio – e non solo -, a non dimenticare le radici, ma a nutrirle affinché possano prosperare in un mondo che sembra troppo spesso assopirsi nella velocità del presente.
In una società sempre più omologata, dove le tradizioni rischiano di essere dimenticate, questo progetto dimostra come l’arte contemporanea possa essere uno strumento di conservazione, di valorizzazione e di innovazione, un mezzo per preservare il passato e allo stesso tempo promuovere una riflessione creativa sul futuro. In questo contesto, RADICI/RRËNJËT si propone non solo come un’operazione estetica, ma come un intervento urgente e necessario per il territorio coinvolto e dal grande valore culturale.

- Le comunità arbëreshe nascono in seguito alle diaspore albanesi avvenute a causa della dominazione turco-ottomana del territorio albanese a partire dal XV secolo e fino al XVIII secolo, nei feudi donati dal re di Napoli Alfonso I d’Aragona al condottiero albanese Giorgio Castriota Skanderbeg, come riconoscimento per l’aiuto militare ricevuto. In Italia sono presenti 50 comunità arbëreshe – quarantuno comuni e nove frazioni -, distribuite in 7 regioni del centro sud: Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria e Sicilia per un totale di 100.000 abitanti. La regione con il maggior numero di comuni arbëreshë è la Calabria, con 30 comuni e tre frazioni, distribuiti nelle province di Cosenza, Crotone e Catanzaro. La popolazione arbëreshe condivide oltre alla lingua, anche un corposo patrimonio culturale, antico quasi 600 anni, che comprende riti, canti, tradizioni, lavorazioni artigianali e in alcune comunità della provincia di Cosenza e di Palermo, anche il rito religioso greco-bizantino (cattolico di rito greco), non più presente nelle comunità del Crotonese poiché sostituito dal rito latino imposto dai vescovi nel XVII secolo. Il patrimonio culturale arbëresh è stato proposto nel 2020 dalla Fondazione universitaria UNICAL “Francesco Solano”, alla Commissione Nazionale Unesco per la candidatura a Patrimonio Immateriale dell’Umanità nel progetto MOTI I MADH (Il “Tempo Grande”) che riguarda i riti arbëreshë della primavera, tra i quali spicca la “Vallja”, la Ridda arbëreshe di Pasqua. ↩︎